Italian Review of Legal History (Dec 2020)
Leggendo alcune recenti pubblicazioni in tema di clemenza per la ‘pacificazione’. Scene della giustizia di transizione del Novecento italiano in prospettiva
Abstract
La clemenza individuale – la grazia – e collettiva – amnistia ed indulto – sono al centro di alcune recenti pubblicazioni, in cui la prospettiva storica è decisiva per capire il senso di questi istituti nel sistema costituzionale e penale, soprattutto nel passaggio dall’«Italia paese delle amnistie» – come scriveva Salvemini nel 1950 – all’odierna eclisse; risale infatti al 2006 l’ultimo contestato indulto, privo, per la prima volta, della contestuale amnistia. La clemenza appare «difficile», «antitesi» piuttosto che «fattore» della giustizia penale, in quanto percepita dall’opinione pubblica come spia della «cattiva coscienza del legislatore» – Radbruch – che, incapace di riformare il sistema, è periodicamente costretto a svuotare le carceri, in un pragmatismo senza principi, in un ‘perdonismo di Stato’. Questa narrazione pubblica – alimentata anche dai giuristi tra Ottocento e Novecento – pare divenuta ‘senso comune’, un pregiudizio difficile da scalfire, al tempo del populismo penale e dei suoi corollari, tra questi il paradigma vittimario, per cui l’amnistia si tradurrebbe in un’offesa alle vittime (Pugiotto). Non è sempre stato così; la «clementia regis, clementia iustitiae» aveva senso nell’antico regime, che «puniva graziando e graziava punendo»; nel secolarizzato Stato legislativo la legalità consiste nell’applicazione della legge (Lacchè). In questo orizzonte la Corte costiuzionale ha raccomandato al legislatore un’inversione di tendenza in tema di amnistia, il passaggio da «strumento eccezionale ad applicazione ordinaria a strumento ordinario ad applicazione eccezionale». (Pomanti). Dopo la revisione dell’articolo 79 della Costituzione – legge costituzionale 1/1992 – base giuridica dell’eclisse dell’amnistia, una ‘nuova narrazione’ fa leva sull’art. 27, che vieta trattamenti contrari al senso di umanità. Le denunzie della Cedu della realtà delle carceri italiane sono il fondamento della richiesta di provvedimenti deflattivi, per riportare la pena detentiva nell’alveo della legalità, dopo l’ipertrofica carcerazione, iscritta nel «diritto penale massimo» (Anastasia, Corleone, Pugiotto). Sono lontani gli anni in cui l’amnistia assolse al compito di un’opportuna politica criminale; i provvedimenti del 1970, che beneficiarono i reati commessi nell’ «anno degli studenti» e nell’«autunno caldo», adeguarono l’ordinamento giuridico alla realtà sociale, in una’pacificazione’ al tempo auspicata dall’opinione pubblica democratica (Mazzacuva). Il legame tra conflittualità politica, clemenza e poteri dello Stato è il tema più studiato nelle recenti pubblicazioni in tema di grazia ed amnistia, con particolare riferimento alla giustizia di transizione, categoria storiografica che usa un diverso approccio rispetto alla tradizionale continuità/rottura, che caratterizza ogni mutamento storico (Bianchi Riva). In questo orizzonte certe ‘eredità della storia’, la giustizia sommaria o l’oblio, segnano dunque anche la nostra contemporaneità, alla ricerca di una via d’uscita moralmente e giuridicamente negoziata, socialmente condivisibile, da regimi violenti ed oppressivi. Vendetta giustizia e riconciliazione, che nell’animo umano dovrebbero essere disgiunte, sembrano «difficilmente districabili» (Portinaro). La particolarità del ’caso Italia’ nell’ambito della giustizia di transizione – con l’ambiguo intreccio tra storia, memoria, narrazione pubblica tramite il diritto penale – risalta alla luce della comparazione internazionale, con l’amnistia legata ad esperienze di violenza collettiva, dalla dittatura alla democrazia, la pace dopo la guerra, il conflitto interno in corso (Portinaro, Maculan, Caroli). Nell’ampia monografia del giovane penalista Paolo Caroli, Il potere di non punire, l’amnistia Togliatti – studiata in law e in action – è assunta, al di la delle intenzioni del guardagilli comunista, come punto di partenza della «transizione amnesica italiana», tipica di un «paese» – con le parole di Pasolini – «senza memoria, il che equivale a dire senza storia». Nella costante sottolineatura della «anomalia italiana» in confronto con le esperienze internazionali di giustizia di transizione, Caroli traccia, tra l’altro, un paragone tra il «diritto penale per uscire dalla guerra e il diritto penale per uscire da Tangentopoli», che – a suo avviso – convergono in una «impunità di fatto». Il potere di non punire pone poi un opportuno interrogativo, a proposito dell’attitudine dello «strumento penale per tutelare la memoria». Quanto alla storia l’amnistia, polemicamente detta Togliatti, fu varata dal Ministero De Gasperi, che traghettò l’Italia dal fascismo alla Repubblica; il decreto presidenziale 22 Giugno 1946 pare irriducibile a mero «colpo di spugna sui crimini fascisti» (Franzinelli). L’amnistia riguardava «delitti anche gravi commessi per una specie di forza d’inerzia del movimento insurrezionale antifascista», e delitti commessi dalle «giovani generazioni», cresciute nel fascismo, e che la «esteriore e coatta disciplina» del regime aveva reso «incapaci di distinguere il bene dal male». Le parole di Togliatti erano in sintonia con la seconda sezione della Cassazione, che riconobbe l’attenuante della «propaganda fascista» ai ‘ragazzi e alle ragazze di Salò’. Un profilo del decreto 22 Giugno 1947 merita una considerazione; l’amnistia, contestuale all’avvio della Costituente, era un profilo dell’accordo tra i principali partiti. Si escludeva dall’orizzonte della Costituzione il fascismo storico e quello «eterno»; si voleva includere nella vita democratica tutti i «buoni italiani», in un atto di «pacificazione e riconciliazione».
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