M@GM@ (Apr 2018)
I prigionieri militari italiani negli Stati Uniti d’America: una “buona” prigionia?
Abstract
Chi si occupa di memoria sa che essa può essere uno strumento per apprendere dal passato. La lettura di varie corrispondenze formali (telespressi e lettere) tra autorità italiane e statunitensi, e in particolare tra il Ministero Affari Esteri e l’Ambasciata italiana a Washington nel periodo 1943-1945, sulla complessa questione dei prigionieri di guerra italiani negli Stati Uniti, ha dato ragione a questo uso della memoria. Dal drammatico contesto storico-culturale del periodo in esame al lettore è apparsa la stessa contraddizione e la stessa rabbia che tutti noi, nonostante gli affanni quotidiani, la voglia di emergere, di andare oltre il muro di gomma che ci imprigiona, ci troviamo nel dover accettare ciò che non abbiamo scelto: anzi, avessimo potuto, avremmo scelto proprio il contrario. La storia d’altra parte rappresenta l’intera umanità e spesso la viviamo da contemporanei degli eventi, ma non la influenziamo: partecipiamo da comparse, quasi da ignari spettatori, da cui frustrazione e insicurezza. Siamo parte di qualcosa, di situazioni determinate da altri che non comprendiamo; vorremmo agire ma non ci riusciamo, altri lo fanno ma è qualcosa di diverso che non ci piace perché quasi sempre segue la logica del più forte. Quest’ansia ci divide e ci fa perdere la fragile solidarietà che ci unisce, vivendo emozioni diverse e molte volte opposte; proprio come fecero i militari italiani prigionieri in America che, secondo l’opinione degli storici, ebbero un trattamento migliore rispetto ai militari prigionieri degli altri alleati. L’affermazione è vera se la consideriamo nel suo aspetto organizzativo logistico complessivo, falsa o parzialmente falsa se ci concentriamo sull’aspetto psicologico e morale delle singole esperienze della diversa tipologia dei prigionieri, in relazione al loro livello di collaborazione con l’offerta organizzativa americana, che comunque non teneva in nessun conto la situazione morale dei prigionieri; ciò che era importante per il Governo statunitense era imporre i propri interessi, il proprio modello organizzativo. Varia la reazione degli italiani: la maggior parte scelse di collaborare, altri si rifiutarono di farlo, ispirati dagli stessi principi di coerenza, naturalmente a differenti valori. Comune il senso di delusione verso una patria che avevano servito in armi, dalla quale si sentivano abbandonati. L’Italia subiva un’ulteriore sconfitta da parte dei suoi stessi militari prigionieri in America. Dall’altra parte emerge chiaro il modello politico-militare americano, fondato su valori democratici che vanno accettati, magari dopo lunghi confronti che comunque portano sempre alla ragione del più forte. Dai campi di prigionia americani emerge una dipendenza politico-culturale dell’Italia verso gli Stati Uniti, che ancora oggi, con diversi sentimenti, viviamo tra chi condivide e sposa senza condizioni il modello culturale e una democrazia da “commercializzare” e chi invece li subisce, senza capacità di cambiare né di partecipare. C’è però una novità: l’attuale leadership politica degli Stati Uniti, con il suo ostentato neonazionalismo, porterà probabilmente ad un nuovo loro isolazionismo, che potrebbe favorire una maggiore consapevolezza delle nostre capacità nazionali. Tutto questo è emerso dalla memoria, riportando alla luce le vicissitudini dei prigionieri militari italiani con le loro aspettative, realizzate e deluse, le loro contraddizioni e il loro sacrificio. Sono stati elaborati i ricordi con l’intento di migliorare le nostre prospettive future.