Territoires du Vin (Mar 2014)

Coltura della vite, produzione e commercio del vino in Valtellina (secoli XIX-XX)

  • Daniele Lorusso

DOI
https://doi.org/10.58335/territoiresduvin.827
Journal volume & issue
no. 6

Abstract

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La viticultura valtellinese ha storicamente fondato le sue fortune sulla qualità dei vini, particolarmente ricercati dai vicini d’oltralpe. La domanda proveniente da Nord, principalmente da Grigioni, Svizzera, Tirolo, Austria, Germania meridionale, Boemia e persino Polonia, ha incentivato l’enorme opera di sistemazione in terrazze artificiali dei pendii più favorevolmente esposti, creando un paesaggio pressoché unico all’interno dell’area alpina per espansione areale e continuità territoriale del terrazzamento viticolo. Nel corso dell’occupazione delle Leghe Grigie (1512-1797), il commercio con l’estero (gli scambi verso l’area italiana erano preclusi), riguardava oltre il 60% della produzione vinicola totale della valle e all’esportazione era riservata la vinificazione del vitigno autoctono migliore, la chiavennasca, mentre per l’autoconsumo locale si utilizzavano uve meno pregiate. Nel XIX secolo, la fine traumatica della dominazione delle Leghe e le vicissitudini che hanno portato la Valle a entrare nel nuovo Regno d’Italia, hanno rappresentato per la Valtellina la necessità di ri-orientare le direzioni di vendita verso Sud, dove incontrarono la concorrenza dei vini piemontesi, emiliani e toscani, già da tempo consolidati nel mercato vinicolo lombardo. I viticoltori valtellinesi, afflitti dalla metà del secolo anche dal diffondersi delle malattie della vite provenienti dal continente americano, per resistere ai competitori, tentano la strada del miglioramento qualitativo del loro prodotto. Nel 1872, su iniziativa di alcuni produttori viene fondata la Società Enologica Valtellinese con l’obiettivo di razionalizzare i metodi di vinificazione. Le nuove prescrizioni portano ad un ammodernamento delle tecniche enologiche, a rinunciare alla viticoltura promiscua e ai vitigni minori, all’adozione dei filari (in armonia con l’impianto terrazzato) e all’abbandono dei vigneti più impervi e siti a quote superiori agli 800 metri. I circa 6500 ha, interamente terrazzati, contati durante la fase di massima espansione della viticoltura nella seconda metà dell’Ottocento, cominciano a ridursi, inizialmente per le sferzate della fillossera, in seguito per progressivi abbandoni delle aree meno vocate. Le prime certificazioni di qualità ottenute dal vino valtellinese negli anni Trenta del Novecento non riescono a frenare il processo di abbandono dei vigneti. Anzi, nel corso del secolo, il fenomeno si accentua: la riduzione della domanda, la trasformazione dell’economia valtellinese da agricola a industriale e terziaria, l’eccessiva parcellizzazione fondiaria, i costi e la fatica della viticoltura in terrazze, allontanano molti piccoli produttori dalla coltivazione (e dalla manutenzione del paesaggio), nonostante le ulteriori qualifiche ottenute dal vino valtellinese, che vedono la Valtellina quale unica regione viticola italiana a poter vantare due vini DOCG nel medesimo areale di produzione. Attualmente, la superficie vitata è ristretta a soli 1000 ha, gli abbandoni sono avvenuti prevalentemente nelle zone di produzione meno favorevoli, ora soggette ad un processo di rinaturalizzazione, e solo i vigneti inseriti nelle aree a denominazione protetta in mano ai grandi produttori, paiono riuscire a resistere alla concorrenza degli altri settori agricoli e agli appetiti dell’edilizia che, da tempo, ha cominciato a colonizzare le terrazze più vicine alla piana.