Italian Review of Legal History (Oct 2024)

Filippo Vassalli e l'epurazione dal fascismo

  • Cristina Danusso

DOI
https://doi.org/10.54103/2464-8914/26094
Journal volume & issue
no. 10/1

Abstract

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Il saggio, ambientato nel tormentato e confuso periodo successivo alla caduta del fascismo, si articola in due parti: nella prima si ricostruisce il coinvolgimento di Filippo Vassalli, eminente professore e stimatissimo avvocato, nelle vicende epurative dell’Università di Roma. Dopo aver rifiutato l’incarico di membro del Comitato di risanamento dell’Ateneo, Vassalli fu inserito nella lista degli epurandi e deferito dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo alla Commissione di epurazione del personale universitario. Con un’accurata e puntuale memoria, egli dimostrò l’infondatezza delle accuse che gli venivano rivolte e venne prosciolto. Nella seconda parte del saggio si esamina, invece, il lungo percorso attraverso il quale Vassalli, inizialmente da solo, difese i senatori dichiarati decaduti dall’Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, e cercò di riabilitare persone che considerava degne di stima e di rispetto, in nessun modo paragonabili ai gerarchi fascisti. Dichiarando apertamente di voler evitare ogni polemica di tipo politico, si tenne strettamente aderente alle categorie giuridiche e, sul presupposto che la sanzione imposta ai senatori avesse carattere penale, imperniò i primi sei ricorsi sull’art. 528 cpp che ammetteva «in ogni tempo» il ricorso straordinario alla Cassazione a Sezioni Unite contro le sentenze di condanna dei giudici speciali. Le Sezioni Unite penali, con ordinanza 15 gennaio 1946, li dichiararono inammissibili, senza però chiudere del tutto la possibilità di controllo giudiziario in sede diversa. I nuovi scenari, aperti dall’eccezionale vicenda giudiziale, attrassero l’attenzione di parecchi giuristi di spicco e nacque un vivacissimo dibattito. Nel periodo successivo, non pochi furono i mutamenti del contesto politico e giuridico: al dominio della sinistra radicale si era andato gradualmente sostituendo quello del centro democratico e, dopo gli eccessi dell’«epurazione selvaggia», si era imboccata la strada della pacificazione civile. Vassalli riprese l’iniziativa in difesa di un buon numero di senatori. Questa volta anche altri avvocati si attivarono e presentarono ricorsi alle Sezioni Unite civili. Tutti fecero perno sull’art. 362 cpc, che ammetteva il ricorso per cassazione «in ogni tempo» contro le sentenze di un giudice speciale per motivi attinenti alla sua giurisdizione. Con un solo voto di maggioranza, nella sentenza 9 giugno – 9 luglio 1946, gli alti magistrati accolsero il motivo di ricorso basato sull’eccesso di potere compiuto dall’Alta Corte. Tutte le ordinanze impugnate furono pertanto cassate senza rinvio per difetto assoluto di giurisdizione del giudice speciale che le aveva emanate. La sentenza suscitò la reazione di colui che aveva presieduto l’Alta Corte, il giudice Lorenzo Maroni, che, in un articolo su “La Giustizia Penale”, affermò di aver agito nel solo interesse della Nazione, «per superiori esigenze di politica interna ed estera» e sostenne che le ordinanze di decadenza emesse dall’Alta Corte, costituendo «esercizio di una potestà esplicata nella sfera costituzionale per fini decisamente politici», erano sottratte a qualsiasi sindacato dell’autorità giudiziaria. La prospettiva in cui il magistrato si poneva, di opportunità politica, era molto lontana da quella rigorosamente giuridica di Vassalli. Dopo la sentenza delle Sezioni Unite civili, vennero presentati altri ricorsi, con esiti non sempre favorevoli: i magistrati, infatti, ritennero che le ordinanze di decadenza motivate dall’adesione alla Repubblica di Salò, cioè «al governo di tradimento nazionale e di guerra civile», fossero pienamente valide, in quanto contenenti un addebito specifico e di rilevante gravità, e rigettarono i ricorsi. Nonostante quest’ultima parziale sconfitta, Vassalli aveva dimostrato che anche in circostanze eccezionali e nel generale disorientamento in cui versava l’Italia postfascista, le ragioni della politica dovevano rimanere incardinate ai solidi punti di riferimento che solo il diritto poteva fornire, perché la riedificazione delle istituzioni democratiche non poteva prescindere dai basilari principi della convivenza civile.

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