Italian Review of Legal History (Oct 2024)
Insufficienza di prove e stereotipi di genere. Per un’indagine sulle prassi giudiziarie in tema di violenza sessuale negli anni Settanta del Novecento
Abstract
La maggior parte dei processi per violenza sessuale si fonda sulle dichiarazioni della vittima, che entrano nel processo attraverso la testimonianza della persona offesa. La loro valutazione è, dunque, essenziale per l’accertamento del reato. Su tale valutazione possono, tuttavia, influire stereotipi di genere che tendono a colpevolizzare le vittime e che spesso le inducono a rinunciare alla tutela legale, con gravi effetti anche sulla fiducia dei cittadini nell’amministrazione della giustizia. L’indagine condotta sulla giurisprudenza del tribunale di Como in materia di violenza carnale (art. 519 c.p. 1930) e atti di libidine violenti (art. 521 c.p. 1930) negli anni Settanta del Novecento dimostra non solo che i tradizionali pregiudizi sessisti influirono sovente sulla valutazione dei giudici, impedendo di accertare la colpevolezza degli imputati, ma anche che il ricorso ad essi fu favorito dall’intrinseca difficoltà di accertamento di tali reati. Sotto il vigore del codice di procedura penale Rocco, i giudici fecero ampio ricorso all’assoluzione per insufficienza di prove, nonostante le raccomandazioni della Corte di cassazione di interpretare la norma restrittivamente. Se, da un lato, l’utilizzo della formula dubitativa anziché di quella piena rifletteva la difficoltà di accertare in concreto i fatti nei processi per stupro, dall’altro consentiva di attribuire una seppur minima rilevanza alle dichiarazioni della parte offesa. In ogni caso, tale soluzione si risolveva in una mancanza di tutela sia per la vittima, che nel processo non otteneva giustizia sia per l’imputato, che, a causa dell’ambigua disciplina del proscioglimento per insufficienza di prove, continuava a subire conseguenze (giuridiche e sociali) negative anche dopo la chiusura del processo.
Keywords